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Approfondimenti teorici

 

In questa sezione trovi alcuni articoli di approfondimento sui modelli teorici e professionali di “Genitori Singolari” 

 

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La Psicologia Umanistica, a cura di L.Francioli

 

La Psicologia Umanista è nata negli Stati Uniti intorno agli anni ’50, ad opera di alcuni psicologi americani, fra cui Abraham Maslow, Rollo May, Carl Rogers.

Eessi erano influenzati da filosofi e intellettuali quali Heidegger, Buber, Binswanger, Sartre, Merleau-Ponty, che rappresentavano in Europa i punti di riferimento per il cosiddetto “Esistenzialismo” [1].

Anche in America si sentiva  a quel tempo la necessità di opporsi ai principi culturalmente riconosciuti e affermati del neopositivismo con modelli culturali e modelli operativi che restituissero all’uomo la sua centralità di soggetto,  responsabile delle proprie scelte e del proprio destino, in opposizione cioè alla scienza ufficiale che, in virtù del suo dominio culturale, aveva finito per considerare l’uomo solo in quanto “oggetto” di studio e, ancor peggio, risultato della sua biochimica  e del suo ambiente familiare.

 

Nel 1960 ci fu dunque il primo Congresso Internazionale di Psicologia Umanista e nel 1961 fecero seguito la pubblicazione di un formale “programma” del movimento e l’uscita di una rivista dal titolo “Journal of Humanistic Psycology”.

La Psicologia Umanista tuttavia non si costituì (né lo fece in seguito) sulla base di definizioni rigorose, preferì al contrario definirsi come un orientamento, una tendenza generale, e come tale rifiutò di congelarsi in una dottrina troppo rigida, per rendersi aperta all’evoluzione dei valori e dei tempi.

 In effetti, gli psicologi Umanisti temevano più di tutto il dogmatismo e la rigidità, che erano infatti fortemente criticati nella psicoanalisi e nel comportamentismo, nei confronti dei quali presero una posizione molto netta. Nacque così la cosiddetta “Terza forza” (o “Terza via”) in  disaccordo con le premesse epistemologiche e col modello di uomo che appunto psicoanalisi e soprattutto comportamentismo promuovevano (Buehler C., Allen M., 1976). 

Partendo dal clima culturale degli anni ’50 e ’60, ci è facile comprendere come fu possibile per la Psicologia Umanista obiettare alcuni principi che sembravano ovvi, ad esempio quello di “normalità”, oppure quello di “malattia”. A tal proposito, mettendo in luce quanto ci sia di accidental o di condizionato dal punto di vista storico e politico su ciò che è considerato “norma” socialmente accettata, gli Psicologi Umanisti decisero di abbandonare qualsiasi categorizzazione nosografica per avvicinarsi a tutta la gamma dei comportamenti umani, considerandoli per principio come “normali” [2].

Contro il dualismo cartesiano, essi  rivendicarono l’olisticità dell’essere umano e negarono che l’istinto o l’ambiente avessero un ruolo di causa-effetto sui comportamenti, così come non lo avevano i conflitti e i dinamismi inconsci.

La Psicologia Umanista infatti contestò il fatto che fosse possibile associare in modo lineare ad una conseguenza una causa prevalente (come era tipico dell’indagine scientifica di stampo cartesiano-newtoniano  e come aveva proceduto la psicoanalisi classica, che a questo approccio si ispirava); essi introdussero piuttosto il concetto di interdipendenza circolare o sistemica[3], in base alla quale le influenze reciproche degli eventi sono così complesse da rendere pressochè impossibile la certezza in merito a ciò che distingue cause da effetti. E se l’indagine sulle cause diventa poco significativa, ecco che diventa rilevante invece focalizzarsi sul fenomeno, così comen si presenta nella situazione specifica, aprendo la strada al mondo dei significati piuttosto che delle cause.

Se oggi, a 40 anni di distanza, questi paradigmi classici sono stati ampliamente messi in discussione e in parte superati dall’intera comunità scientifica[4], ciò  lo si deve sicuramente non solo alla  Psicologia Umanistica ma anche alla spinta culturale che altri movimenti e correnti filosofiche hanno esercitato a partire dagli anni ’40, in tutto il mondo occidentale, primi fra tutti  l’Esistenzialismo e la Fenomenologia.

 

Per tornare alla Psicologia Umanista, essa sostenne che semmai alla base dei comportamenti umani vi era una forza costruttiva interiore, orientata naturalmente all’autorealizzazione  (Giordani, 1988).

In particolare le critiche che la Psicologia Umanista fece alla Psicoanalisi e al Comportamentismo si riferivano proprio al modello di uomo da esse implicato.

Nella Psicoanalisi si trattava di un uomo “pessimista”, deterministicamente schiacciato dalla propria infanzia, condizionato da una natura che andava incontro inevitabilmente al conflitto con le norme sociali, destinato a sperimentare intoppi nel suo sviluppo; dal punto di vista clinico, inoltre, la Psicoanalisi considerava il sintomo come un punto di partenza o di riferimento, lungo la strada della scoperta di sé, cui di fatto mirava  l’analisi del transfert che consentiva  essa sola una conoscenza profonda del materiale rimosso (per mezzo essenzialmente dell’ interpretazione)[5].

Per quanto attiene al Comportamentismo invece, era proprio il sintomo  il solo e unico obiettivo della terapia, che veniva trattato in modo diretto con tecniche  di decondizionamento e di sensibilizzazione[6]; il modello di uomo implicato in tale approccio, secondo gli Umanisti, attribuiva all’ambiente un ruolo esclusivo nel processo di crescita e quindi anche al processo di cambiamento, dove il cambiamento finiva per ridursi ad un nuovo apprendimento, esercitato ancora una volta da fuori, in questo caso dal terapeuta, che applicava in modo diretto una pressione verso la direzione da lui considerata “ottimale” per il paziente.

Gli psicologi Umanisti al contrario ritenevano che ogni essere umano fosse animato da una tendenza intrinseca a sviluppare le proprie potenzialità, e facevano esplicitamente riferimento ad un dinamismo “naturale”, che lo spingerebbe verso il completamento e il miglioramento.

 

 Si tratta dunque di una visione “ottimistica” dell’uomo,  cui aggiungevano la fiducia nelle sue capacità di comprendersi da solo e di risolvere i problemi che gli impediscono la soddisfazione[7].

  


 

La Terapia della Gestalt, a cura di L.Francioli

 

La Terapia della Gestalt nasce ad opera di un eclettico Psicoanalista di origine tedesca, Fritz Perls (1873-1970), ma si sviluppa culturalmente sulla scia della Psicologia Umanista e in particolare negli Stati Uniti, dove Perls si trasferisce dopo la seconda Guerra mondiale, raggiungendo la sua piena espressione e popolarità intorno agli anni ’70.

 

Nell’approccio Gestaltico e nei suoi presupposti teorici è molto netta fin dalle sue origini la presa di distanza dalla teoria psicoanalitica classica, in particlare in relazione alla causa del malessere psichico che nella psicoanalisi viene individuata in una conflittualità intrapsichica avvenuta necessariamente nel passato, in coincidenza di una tappa evolutiva non del tutto superata.

 

Secondo il caposcuola della Terapia della Gestalt , Fritz Perls, infatti:

la Psicoanalisi incoraggia uno stato infantile affermando, attraverso la valorizzazione del ricordo, che il responsabile della malattia è il passato (.) Ai suoi tempi (di Freud) l’approccio scientifico  era quello della causalità (.), ma (.) oggi non vediamo il mondo in termini di causa-effetto…nella comunità scientifica siamo passati dalla causalità lineare  al pensare in termini di processo, dal perché al come”. [8]

 

Perls tuttavia non nega che il passato possa esercitare un effetto sul presente, solo che sottolinea il fatto che tale passato – lungi dall’essere “reale”-  è invece il prodotto di una fantasia, di una “maya”, termine indiano che Perls  utilizza al fine di rendere il concetto cognitivista più recente di “rappresentazione mentale”. 

In quanto fantasia, il passato –e a maggior ragione l’indagine “mentale” di esso- allontana dalla possibilità di evolvere e anche di guarire.

Allo stesso modo, è un “maya” l’anticipazione del futuro, dove i limiti di tale anticipazione sono gli stessi di quelli visti per l’indagine del passato.

La mente è infatti “un palcoscenico” dove “si fanno le prove per il futuro…la nostra vita di fantasia è rivolta al futuro”;[9] ma in questo processo costante di anticipazione, per evitare che ci accada qualche cosa che non conosciamo e che pertanto ci spaventa, facciamo di tutto per restare

 aggrappati all’identità che abbiamo, per accertarci che non avremo un futuro”.[10] cioè un futuro diverso da ciò che già conosciamo; con questo ci impediamo però di aprirci al nuovo e quindi di crescere.

Questo processo di anticipazione è spesso automatico e stereotipato;  questa fantasia che condiziona le nostre scelte e le nostre non-scelte,  assorbe una grande quantità di forza vitale, quella che ci consentirebbe di entrare realmente in contatto con il qui ed ora se diversamente utilizzata.

 

Per inciso và ricordato che anche per Freud la fantasia è un processo mentale che guarda al passato o al futuro; e sempre per Freud essa si manifesta proprio sotto forma di sintomo, atto mancato, sogno onirico o sogno ad occhi aperti  con una finalità difensiva rispetto al vero conflitto (quello fra le istanze psichiche); la fantasia è una via di fuga finalizzata a gratificare i desideri che nella vita reale non possono essere soddisfatti. Dice Freud della fantasia onirica (ma ciò è valido anche per la fantasia in generale):

 

il contenuto del sogno è la realizzazione di un desiderio, il suo motivo un desiderio”.[11]

 

Secondo la teoria pulsionale, il desiderio caricato energeticamente, tende naturalmente alla scarica: ciò significa per Freud che alcuni “oggetti” rappresentati a livello mentale vengono investiti dalla carica pulsionale, e che il “quantuum” di energia che è la pulsione viene scaricata in modo definitivo, provocando la soddisfazione.

Quando però tale scarica è impedita da un conflitto irrisolto, ecco che interviene la fantasia, producendo una soddisfazione solo allucinatoria e soprattutto momentanea.

 

Anche se Perls critica la teoria pulsionale e in parte quella degli istinti, qui ci preme solo sottolineare come egli in fondo condivida i presupposti psicoanalitici classici in relazione alla fantasia e alle sue finalità difensive, ma per giungere a delle conclusioni opposte; Freud si serve del meccanismo della fantasia per teorizzarne le possibili cause (il conflitto fra le istanze) e per ipotizzare le modalità di funzionamento dell’apparato psichico in generale; Perls  se ne serve invece solo per sottolineare quanto questo processo di teorizzazione sia inutile e anzi dannoso: una volta che il meccanismo difensivo è visto nella sua manifestazione nell’individuo, non servono ulteriori disquisizioni o spiegazioni del perché; ecco dunque l’importanza del “come” rispetto al  “perché”.

Dice infatti Perls:

 

Come possiamo sostituire il pensiero causale? Come possiamo acquisire una conoscenza scientifica senza chiedere le ragioni? Se abbiamo il coraggio di seguire la scienza moderna nella sua affermazione che non vi sono risposte ultime al “perché?”, ci imbattiamo in una scoperta molto confortante: a tutte le domande rilevanti si può chiedere “come?” “Dove?” “Quando?” La descrizione dettagliata equivale alla concentrazione e ad una accresciuta conoscenza.”[12]

 

Sono evidenti in questo approccio le assonanze con i principi epistemologici del Comportamentismo (che su gli altri aspetti criticava), ma in Perls non sono esplicite, anzi[13]. Perls era insofferente alle concettualizzazioni e come terapeuta e come persona credeva nel primato dell’esperienza rispetto a quello del pensiero intellettuale. Era interessato al cambiamento e alla crescita personale sua e dei suoi pazienti e credeva che solo una focalizzazione sul “qui ed ora” garantisse la possibilità di tale cambiamento. Le spiegazioni teoriche, ancorché plausibili e condivisibili, erano a suo modo di vedere del tutto inutili e potevano anzi essere dannose, potevano essere delle ulteriori fantasie, allontanando la persona dal contatto col presente.

 

Ecco dunque che la Terapia della Gestalt, pur non contestando le ipotesi psicoanalitiche della fantasia, della rimozione, dei vissuti infantili, etc. sposta il fuoco altrove, ponendo grande attenzione all’apprendimento di modalità di comportamento più funzionali,  spingendo paziente e terapeuta  a lavorare per il cambiamento, valorizzando il concetto di azione qui ed ora. Se infatti la fantasia serve solo ad impedire che l’individuo entri in contatto sia con sé e con il mondo, contatto che probabilmente è fonte di ansia, l’obiettivo terapeutico può essere solo quello di ripristinare questo contatto, lasciando perdere qualsiasi considerazione intellettualistica sul “perché” ciò è avvenuto.

 

In “ Io, la fame, e l’aggressività” (1947)[14], Perls parla in modo esplicito di “aboutism”, un termine che sta a significare “girare intorno”; tale pratica è la modalità difensiva per eccellenza, è l’attitudine all’evitamento soprattutto delle situazioni che generano ansia. Si gira intorno, si anticipa il futuro in modo ripetitivo ancorché doloroso, pur di evitare di entrare veramente in contatto col presente, di immergersi in ciò che siamo, spesso semplicemente nel sintomo che siamo. E questo è tutt’altro che semplice.

Infatti secondo Perls: 

quando si comincia a sentirsi scomodi, si distoglie l’attenzione

 

relegando sullo “sfondo” la situazione spiacevole; eppure:

 

il nemico della evoluzione è (.) proprio la non disponibilità a soffrire il minimo indispensabile”.[15]

 Bisogna dunque affrontare la dantesca discesa negli inferi se si vuole guadagnare la salvezza: essa è la consapevolezza e il suo doloroso processo di acquisizione[16].  Con essa accade spesso che il sintomo si dissolva come neve al sole. Ma è significativo che per la Terapia della Gestalt la dissoluzione del sintomo non sia necessariamente l’obiettivo della terapia, semmai ne è una conseguenza; l’obiettivo è infatti il processo della consapevolezza, che è via maestra del cambiamento e della crescita. Si dice in “Teoria e pratica di terapia della Gestalt”: Lo scopo del trattamento non consiste nella dissoluzione della maggior parte dei complessi o nella liberazione da certi riflessi, ma piuttosto nel giungere a un punto tale nella tecnica dell’autoconsapevolezza che il paziente possa andare avanti senza aiuto”.[17] 

Ecco però che  facendoci carico nel qui ed ora del sintomo che siamo, ci immergiamo “nell’ovvio”, non nel profondo, nel rimosso, ma al contrario nell’evidente, nella superficie; non c’è cioè un rimando ad un significato “altro”, c’è semplicemente il sintomo quale si manifesta.

Anche in questa valorizzazione dell’ovvio vi è una significativa contrapposizione con la teoria psicoanalitica e con il suo concetto di rimozione. Per Perls  infatti

 Non è possibile rimuovere un bisogno, possiamo bloccarci da una parte, ma esso emerge da un’altra parte (.) ad esempio nella voce (.) prestando attenzione non a cosa uno dice ma a come lo dice, il terapeuta vede (.) l’intero essere della persona che ha davanti; (.) nessuno può avere dei segreti, dato che il nevrotico inganna solo se stesso e nessun altro se non per un tempo limitato e solo se è un bravo attore..”. [18]  

E ancora:

 non c’è nulla di profondo che non appaia in superficie, se lo sappiamo cogliere, e non c’è nulla in superficie che non abbia radici profonde, se le sappiamo cogliere”. 

In questo diverso modo di intendere il rimosso e il sintomo,  il concetto freudiano di inconscio viene visto sotto una luce completamente diversa.

 

Secondo l’approccio psicoanalitico classico, infatti, la fantasia così come anche il sogno, l’atto mancato o il sintomo sarebbero le modalità fenomenologicamente rilevanti (superficie) che avvertirebbero paziente e terapeuta  della presenza del conflitto (profondo); esse sarebbero avvertite in quanto conscie o preconscie.

Solo attraverso un lento e faticoso lavoro di decodifica e di interpretazione di tali fenomeni di superficie, sarebbe possibile infine portare alla luce e alla coscienza l’esistenza del conflitto vero e proprio e con ciò risolverlo.

 

Ma Perls  come abbiamo visto non si cura di un ipotetico profondo sotto la superficie, la superficie ovvero il fenomeno che posso sperimentare e vivere nel qui ed ora è la vera essenza, l’unica cosa che conta davvero.

 

Ecco dunque che questo ovvio, questa superficie che noi siamo, richiede solo un atto di responsabilità da parte nostra, null’altro che una presa in carico del nostro sentire e del nostro essere. Non c’è un inconscio che ci impedisce di vedere il conflitto per quello che è, non c’è un’area altra, inaccessibile alla mia coscienza, dove vanno a finire –senza che io possa scegliere- i pezzi non risolti del mio passato: c’è solo quello che sono ora e la scelta o il rifiuto di farmene carico[19]. Tale scelta è libera e nessuna fra le persone presenti o passate può davvero condizionare tale scelta, crederlo ancora una volta significa fare dell’”intornismo”, dello “aboutism”.[20]

 

D’altra parte, per far ciò, non servono lavori complessi e elaborazioni intellettuali, l’approccio

 Gestaltico evita le interpretazioni, le produzioni puramente verbali e ogni altro tipo di masturbazione mentale. Una masturbazione mentale potrebbe esser un sintomo che nasconde qualcos’altro. Ma quel che c’è, c’è e basta. Terapia Gestaltica significa essere in contatto con l’ovvio”.  

Altrove, Perls diventa ancora più esplicito:

 

Il procedimento terapeutico deve portare il paziente(.)a smettere di interrompersi. Come possiamo fare questo senza commettere l’errore di interrompere l’interruzione? .. Dobbiamo trattare i come di ogni interruzione, piuttosto che (.) il perché delle interruzioni. Se ci occupiamo delle interruzioni trattiamo il quadro clinico diretto, l’esperienza che vive il paziente. Trattiamo insomma la superficie che si presenta. Non occorre indovinare o interpretare. Cogliamo semplicemente l’interruzione di una frase o osserviamo che il paziente trattiene il fiato, oppure vediamo che stringe i pugni, come per colpire qualcuno(.) E’ consapevole di queste interruzioni? Questa deve essere la nostra prima domanda…Rendendo mediante la concentrazione i nostri pazienti consapevoli nel qui e ora di queste interruzioni e dei loro effetti possiamo determinare integrazioni reali.”[21]

 

L’atto di responsabilità è quello che consente di stare in contatto con quello che sta succedendo.  Ma se

 quello che sta succedendo  diventa sofferenza il più delle volte la persona è pronta(.) evitare la situazione(.)e a tagliare la corda, oppure si mette a giocare ad alcuni giochi per riempire il vuoto dell’evitamento.[22] 

Secondo Perls, questo vuoto però: 

 

quando ci entriamo dentro(.)da vuoto sterile diventa vuoto fertile.(.).il vuoto privo di contenuto diventa vivo, viene riempito. Nulla equivale  a reale”.[23]

 E ancora:

l’individuo capace di tollerare l’esperienza del vuoto fertile –sperimentando fino in fondo la propria confusione- e che riesce a divenire consapevole di tutto quanto richiama la sua attenzione.(.). vedrà che la confusione  si trasforma in chiarezza.(.).L’esperienza del vuoto fertile non è né oggettiva né soggettiva. Non è neanche l’introspezione. Semplicemente è. E’ la consapevolezza senza la speculazione sulle cose su cui si è consapevoli.”[24]

 Dunque in termini terapeutici e metodologici la Terapia della Gestalt trascura le libere associazioni e il processo di interpretazione a favore della “concentrazione”, contenere cioè i meccanismi di evitamento, sostenendo al contrario un lavoro di focalizzazione sulla Gestalt ansiogena; essa inoltre, enfatizza la presa in carico e la responsabilizzazione individuale (consapevolezza) fino al punto da ritenere che essa coincida in molti casi con la risoluzione stessa del disagio psichico[25].        Da questa breve panoramica, si evince quanto la Terapia della Gestalt sia orientata al qui ed ora e quanto poco si curi di ciò che in un passato reale o immaginato possa essere accaduto.   Tale approccio richiama i fondamenti della fenomenologia e della filosofia esistenzialista, che in Europa a partire dagli anni ’40 tanta parte hanno avuto nel modificare radicalmente i paradigmi di stampo neopositivista condivisi per lo più nella comunità scientifica e, più in generale, del clima culturale di quegli anni. Perls tuttavia si richiama raramente in modo esplicito a questi due filoni di pensiero, ma li fa suoi nella sua pratica e nei suoi presupposti metodologici, dimostrando di esserne stato fortemente influenzato e di essere arrivato negli stessi anni alle medesime conclusioni nel campo della psicoterapia. Concetti come quello di responsabilità, libertà, di consapevolezza, di presa in carico; l’esperienza del “vuoto fertile” sopra richiamata; la storicità e relatività del modello di uomo che Perls presuppone essere l’artefice del superamento delle proprie Gestalt incompiute; il primato del vissuto concreto rispetto alla speculazione astratta e infine l’irripetibilità dell’esperienza umana sono solo alcuni degli elementi che richiamano fortemente la tradizione fenomenologia/esistenzialista[26].


 

  

La teoria dell’attaccamento di J.Bowlby, a cura di L.Francioli

 

Gli studi di Bowlby, medico e psicoanalista inglese (1907-1990) e dei suoi collaboratori, hanno evidenziato come il legame che il bambino instaura con la madre nei primi anni di vita sia orientato etologicamente, sia cioè legato ad una necessità tipica alla nostra specie che alla nascita (e per lungo tempo dopo la nascita) ha bisogno per sopravvivere della protezione degli adulti di riferimento per garantirsi la protezione dalle minacce dell’ambiente.

Il sistema di attaccamento ha l’obiettivo dunque di garantire in modo inanto la vicinanza alla persona che può fornire tale protezione, ma dal punto di vista del vissuto interno del bambino si configura come un sistema motivazionale orientato all’acquisizione del vissuto di sicurezza emozionale.

Dal punto di vista emozionale, dunque, i vissuti di sicurezza legate all’accoglienza, rassicurazione, conforto e nutrimento che le figure di riferimento sono in grado di fornire al bambino sono fondamentali nel fornire quella “base sicura” che consente al bambino di proseguire nel suo processo evolutivo. Se per motivi vari questa senso di sicurezza non si instaura, o vi sono delle carenze, il bambino metterà in atto meccanismi volti a difendersi dal senso di insicurezza interiore, anche se ciò dovesse esser disfunzionale per la sua crescita e per il suo benessere futuro.

 

Gli scambi relazionali nell’infanzia (che ovviamente si devono ripetere nel tempo e “accumularsi” in senso benefico o traumatico - non possono cioè degli episodi isolati per quanto significativi condizionare gli schemi mentali del futuro adulto-) sono alla base del senso del sè  che il bambino svilupperà nel tempo e che è connesso alla futura capacità di realizzazione e benessere.

 

Come le paperette di K.Lorenz, dunque, anche gli esseri umani ricevono l’imprinting dagli adulti di riferiemento, sottoforma di schemi emozionali, vissuti di sicurezza o insicurezza interiore, di autostima e di fiducia in se stessi, vissuti che tanta parte hanno nella vita adulta, in particolare nei momenti critici o di cambiamento.

 

Secondo Ainsworth (1969) e Lorenzini e Sassaroli (1995) gli stili di attaccamento –risltato delle esperienze di attaccamento dell’infanzia- sono 4: sicuro; evitante, ambivalente; disorganizzato.. Gli ultimi tre sono tutti attaccamenti definibili insicuri.

 

Nell’attaccamento sicuro, la sicurezza della disponibilità della figura di riferimento ha creato nel bambino la condizione emozionale per sostenerlo verso l’esplorazione e le novità. Le persone con attaccamento sicuro- una volta adulte- sono ragionevolmente sicure delle loro capacità nel risolvere i problemi e non hanno paura di affrontare la verifica delle proprie ipotesi e la sua conseguenza, anche nel caso si rivelino errate.

 

Nell’attaccamento evitante, la figura di attaccamento si è probabilmente resa poco disponibile in relazione ai bisogni del bambino, c’è stata probabilmente una carenza. per tale motivo il bambino ha adottato modalità difensive di repressione della rabbia. Progressivamente il bambino impara a fare a  meno della relazione con al figura di attaccamento, concentrando la sua attenzione più sulle cose che sulle persone o sulle relazioni. Uno schema emozionale di questo genere, provoca nell’adulto una sorta di “autarchia” in base alla quale i messaggi invalidanti o i feedback proveniente dagli altri o dall’ambiente non hanno effetto, vengono semplicemente annullati. La vita relazionale ed emozionale è dunque molto povera ma anche quella intellettuale e cognitiva può degenerare in modo significativo, rendendo difficile l’apprendimento di nuove informazioni. L’introietto potrebbe essere: il mondo è inaccessibile.

 

Nell’attaccamento ambivalente, la figura di attaccamento è stata sperimentata come imprevedibile, ora molto intensa, ora assente, ora addirittura intrusiva. La mancanza di stabilità nella figura di riferimento genera la rinuncia a qualsiasi movimento esplorativo, nel tentativo di mantenere la vicinanza fisica il più stretta possibile. L’energia è spesa tutta nel tentativo di anticipare le richieste della figura di attaccamento, a scapito della libera espressione ed esplorazione.  L’evitamento dell’imprevedibilità diventa il motivo dominante nella vita adulta, per cui le persone che hanno sviluppato questo tipo di attaccamento si muoveranno solo nel conosciuto, rinunciando a  qualsiasi esplorazione dell’ambiente. I feedback e i messaggi invalidanti verranno il più possibile evitati (più che annullati), pertanto le energie verranno impiegate nel mettere in atto meccanismi di evitamento delle relazioni.   L’introietto potrebbe essere: il mondo mi accetta solo se faccio qualcosa per farmi accettare.

 

Nell’attaccamento disorganizzato, la figura di riferimento trasmette costantemente messaggi di pericolo, o perchè è essa stessa spaventata o perchè mette in atto minacce o comportamenti minacciosi nei confronti del bambino. Il bambino impara a vedere il mondo come minaccioso e  a sviluppare ostilità e sopraffazione a scopo difensivo. Le persone adulte con questo tipo di attaccamento tenderanno ad ingaggiare relazioni intense ma ostili, volte  ad affermare le proprie ipotesi anche quando si sono mostrate fallimentari, allo scopo di ignorare o sopraffare l’altro. L’introietto potrebbe essere: il mondo è minaccioso.



[1] M.Heidegger pubblica nel ’47 “Lettera sull’Umanesimo”; J.P.Sartre un anno prima aveva pubblicato: “L’Esistenzialismo è un Umanesimo”. I due testi e la polemica a distanza fra i due filosofi furono fondamentali a chiarire il concetto di “Umanesimo”, cui gli psicologi americani umanisti fanno riferimento.

[2] Gli stessi principi alimentarono il movimento umanista di “anti-psichiatria” che si costituì in Inghilterra intorno a Laing e in Italia a Basaglia  negli anni sessanta; vedi di Laing R.:  L’Io e gli altri, Sansoni, Firenze 1973; L’io diviso. Studio di psichiatria esistenziale, Einaudi, Torino, 1969.

 

[3] Fu G.Bateson (1972) ad introdurre nella psichiatria il pensiero sistemico mentre Watzlawick e colleghi (1967) alla prospettiva sistemica affiancarono quella relazionale, evidenziando così una dimensione soggettiva che nella teoria dei sistemi sembrava trascurata (vedi Ugazio, 1985).

 

[4] Ci riferiamo in particolare al paradigma della complessità, ormai affermato; esso (che fa riferimento ad un’idea di scienza aperta, non esaustiva rispetto all’universo oggettuale che intende descrivere, e che colloca al suo interno categorie come quelle di incompletezza, riduzionismo, caso, caos etc.) ha contribuito a trasformare in modo irreversibile l’immagine della scienza e delle stesse capacità conoscitive dell’uomo, rispetto al paradigma meccanicista della scienza classica. Vedi Castiglioni-Corradini (2003)

 

[5] Sulla psicoanalisi e sul modello epistemologico da essa implicato vedi ancora Castiglioni-Corradini (2003); inoltre un “classico” come Brenner C. (1955).

 

[6] J. Wolpe (1969)  ne ha fornito una ampia descrizione nel suo “Tecniche di terapia del comportamento

 

[7] Tali principi appaiono condensati nel concetto di “tendenza attualizzante” riguardo al funzionamento dell’individuo che C.Rogers (1951) pose già alla base della sua “Terapia centrata sul cliente”.

 

[8] “La terapia Gestaltica parola per parola”, F.S. Perls, Astrolabio, pag 52

 

[9] “La terapia Gestaltica parola per parola”, F.S. Perls, Astrolabio, pag. 55

 
[10]  Ibidem

[11] “L’interpretazione dei sogni”, S.Freud, Rizzoli, pag. 190

 

[12] “Io, la fame e l’aggressività”, F.S. Perls, Franco Angeli, pag. 103

 

[13]  Come tutti gli Psicologi Umanisti, Perls vedeva del comportamentismo solo l’aspetto meccanicistico e deterministico e per questo lo criticava.

[15] F.S. Perls, “La terapia Gestaltica parola per parola”, Astrolabio, pag. 60

 
[16] “ The only way to get out is to go through” soleva dire Perls, come riportato dai suoi collaboratori (vedi A.e S. Ginger, 1987, pag. 175.). 
[17] F.Perls-R.F. Hefferline-P.Goodman (1951), “Teoria e pratica della terapia della Gestalt”, Astrolabio, 1971, pag.59

[18] F.S. Perls, “La terapia Gestaltica parola per parola”, Astrolabio, pag. 62

[19] S. e A. Ginger, due fra gli eredi di Perls più importanti, parafrasando una frase di Sartre, affermano un principio fondamentale anche della Gestalt:”L’importante  non è ciò che mi accade, ma ciò che io faccio di ciò che mi accade”(S.Ginger-A.Ginger, 1990, pag. 21). Tale affermazione-citazione è diventata molto popolare fra i Gestaltisti.

 

[20] L’enfasi posta sul concetto di responsabilità individuale e il rifiuto del concetto di inconscio quale “alibi” di azioni che sarebbero sottratte alla coscienza, richiama alcuni concetti-base dell’esistenzialismo di J.P. Sartre, in particolare il concetto di “malafede” quale è espresso in “L’Essere e il Nulla”(1944).

 

[21]L’approccio della Gestalt: testimone oculare della terapia”, F.S. Perls, Astrolabio, pagg. 71 e segg.

 

[22] Ibidem

 

[23]La terapia Gestaltica parola per parola”, F.S. Perls, Astrolabio, pag. 61. Sarebbe interessante approfondire le assonanze fra il concetto di “vuoto fertile” e quello Heideggeriano di “nulla”, nella sua valenza di “rilevatore di essenza”, in M. Heidegger (1927), Essere e Tempo

 

[24]L’approccio della Gestalt: testimone oculare della terapia”, F.S. Perls, Astrolabio, pagg.94-95

 

[25] Il “paradosso del cambiamento” fu enunciato anche da C.Rogers (1961): “E’ nel momento in cui mi accetto così come sono che io divengo capace di cambiare”.

 
[26] Vedi J.P.Sartre (1944); il filosofo francese scrive in “L’essere e il Nulla: “L’esistenza precede l’essenza” ; “L’uomo è condannato ad essere libero”.Come egli chiarirà due anni dopo in “L’esistenzialismo è un umanesimo”, ciò significa che non ci sono valori e principi che vengano prima della scelta che li rende riconoscibili come tali, ma  ciò non si traduce in un “quietismo della disperazione” che molti avevano definito essere l’unica conseguenza possibile, bensì in un “ottimismo” dell’iniziativa e dell’impegno che tuttavia Sartre non esita anche a definire “disperato”; tale disperazione nasce dal fatto che l’uomo è solo, senza il soccorso di alcuna provvidenza ultra-terrena  o storica, cui l’uomo possa affidare quel lavoro che tocca solo a lui fare.