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Il Magico Mondo di OP, la prefazione

Il magico Mondo di OP, favole scritte da genitori single per i propri figli. Questa pubblicazione, disponibile in versione digitale, è stata realizzata nel 2013 dall'Associazione One Parent per le sue finalità associative. Di seguito si riporta la sola prefazione scritta da L.Francioli in cui viene trattato il tema dell'importanza della fiaba nell'educazione dei figli.

Il magico Mondo di OP - Favole scritte da genitori single per i propri figli

Prefazione di Linda Francioli (*)

Raccontare fiabe ai nostri figli non è una prerogativa che noi, genitori di oggi, esercitiamo con facilità. Il mondo corre veloce e non sempre riusciamo a ritagliarci il tempo giusto e lo stato d’animo adatto per affrontare un racconto. Inoltre socialmente, e in particolare nei programmi educativi istituzionali, l’attenzione viene spesso data più allo sviluppo e all’esercizio delle competenze cognitive e in seconda battuta a quelle sportive o motorie, che non a quelle che riguardano l’animo, con i suoi tesori d’immaginazione, principi morali, intuito e conoscenza di sé.

Così, nel tempo limitato che abbiamo, finiamo tutti per considerare più importante iscriverli a quel corso di pallavolo, ripetere la lezione di geometria, o magari aiutarli nel compito di grammatica per l’indomani. Releghiamo le questioni dell’animo sullo sfondo, oppure le deleghiamo alla parrocchia, al catechismo, insomma a qualcuno o qualcosa che ha a che fare più con il divino che con l’umano.

Invece, poiché sono proprio le competenze dell’animo il fondamento più solido di tutte le altre, occupandocene svolgiamo la parte più importante del ruolo di genitore; e la fiaba è uno strumento molto efficace per facilitarci in questo compito.

Le competenze dell’anima, infatti, a differenza delle facoltà logico-razionali e a quelle dello sviluppo muscolare-scheletrico che si consolidano prevalentemente attraverso l’esercizio della volontà individuale, si apprendono in modo implicito, e nell’infanzia pure senza sforzo e senza volontà, contribuendo così a costruire quell’immenso patrimonio che è lo “sfondo” su cui s’innestano i primi rudimenti della definizione di sé, i ricordi coscienti, le aspirazioni personali, i valori fondanti del proprio agire. Un patrimonio prevalentemente “inconscio” che, come ha magistralmente mostrato Freud, guida spesso ben più del “conscio” le nostre scelte e la nostra vita da adulti.

Alla stregua di una sessione di ginnastica o di una prova di matematica, l’arte del racconto allena, dunque, i nostri figli nell’apprendimento di facoltà superiori e importantissime, il cui possesso è fondamentale per vivere felicemente, al di là delle avversità che la vita potrà loro riservare. Vediamo alcune di queste facoltà e come avviene il loro apprendimento grazie alle fiabe.

Creatività e problem solving

La prima facoltà di cui ci occupiamo è quella relativa alla risoluzione dei problemi. Non parliamo qui di problemi logici o matematici, ma di quelli che si riferiscono al superamento di quegli ostacoli che ognuno di noi si trova quotidianamente ad affrontare. Spesso sono legati alle relazioni umane: qualche volta si tratta di fare una scelta difficile fra il soddisfacimento di un bisogno immediato rispetto ad un futuro, oppure di far contento qualcuno (o se stessi) ma di scontentare qualcun altro.

Attraverso il racconto di una fiaba, il bambino ha la possibilità di addentrarsi con facilità nel delicato mondo dell’immaginario, imparando a lasciare spazio alle soluzioni più creative e addestrandosi all’arte del possibile su tante questioni che per la logica risultano improponibili o contraddittorie; fra queste, vanno decisamente incluse tutte quelle che noi adulti facciamo così fatica a trattare (anche fra noi!) come il tema della morte, della giustizia, del tradimento, dell’amore, dell’autocontrollo o dell’esercizio del potere sugli altri. Questioni da cui non possiamo e non dobbiamo tener lontani i bambini, ma piuttosto aiutarli -con il linguaggio appropriato- ad affrontare, affinché imparino come si trova la soluzione più adatta a sé.

E sottolineo “più adatta a sé”, perché spesso, piuttosto, cadiamo nell’errore di fornire ai nostri figli la soluzione che riteniamo giusta per noi, seppur pensando naturalmente di fare il loro bene. Per questo, quando ci facciamo venire qualche dubbio su cosa dire loro, a volte è proprio lì che può cominciare il vero lavoro educativo. Come nel caso che segue.

Francesca, mamma-single di una bimba di nove anni, è preoccupata di come sua figlia Miriam sia solita scoppiare improvvisamente in eccessi d’ira, che non sa bene come trattare. Dice che le dispiace perché anche quando Miriam ha ragione ad arrabbiarsi, lo fa con tale foga da generare problemi con le amichette con le quali gioca; in aggiunta a ciò, dice che la bimba stessa sembra consapevole dell’effetto di allontanamento che questo provoca negli altri e afferma che la cosa la fa probabilmente sentire sbagliata e cattiva. In sintesi, sua figlia non sa autocontrollarsi, e mi chiede aiuto su come potrebbe insegnarglielo.

Nel corso del primo incontro individuale che ebbi con Francesca, le chiesi se conosceva il problema, se cioè avesse un’idea precisa di cosa volesse dire non avere autocontrollo, e quando mi disse di sì, le chiesi allora di raccontarmi come lo aveva risolto. Lei mi spiegò che, in effetti, non lo aveva davvero risolto: aveva ricevuto un’educazione paterna molto repressiva, a tratti violenta e lei si era svincolata allontanandosi da casa in età universitaria; e tuttavia oggi, più di venti anni dopo, sentiva ancora di alternare dolorosamente momenti di totale auto indulgenza a momenti di forte repressione della rabbia, nel tentativo non raggiunto di trovare un equilibrio su cui fondare maggiore spontaneità e fiducia di sé; avrebbe voluto evitare tutto questo a sua figlia e proprio per questo era qui: voleva sapere cosa doveva fare.

L’esperienza personale di Francesca con un padre repressivo era totalmente differente da quella di un padre mai conosciuto, che era lo sfondo emozionale su cui sua figlia aveva vissuto fin lì. La sua esperienza non le sarebbe servita, dunque, non solo perché non era ancora arrivata alla piena risoluzione della sua storia, ma soprattutto perché rischiava di assimilare a sé il vissuto di sua figlia, che era invece per definizione totalmente diverso. Le dissi, dunque, che non si trattava di insegnare a sua figlia cosa fare, ma di supportarla nel trovare la sua soluzione. In questo sì che le sarebbe servita la sua esperienza, ma non perché le avrebbe suggerito cosa fare, bensì perché le forniva l’empatia necessaria per stare accanto a sua figlia, per sintonizzarsi sul bisogno di aiuto che la bambina esprimeva, quello davvero simile al bisogno che lei stessa aveva provato da bambina. E per darsi appieno la possibilità di accompagnare sua figlia, la fiaba sarebbe stata fra gli strumenti più utili a sua disposizione.

La fiaba costituisce una grande risorsa, fino anche ad assumere -quanto utilizzata nel setting terapeutico e da uno specialista- un formidabile strumento di cura e di guarigione dell’anima di adulti e piccini. La fiaba fornisce, infatti, gli scenari su cui la varietà del genere umano trova le sue più disparate soluzioni; è dunque il contesto ideale per imparare cosa significa cercare e poi trovare una soluzione, e meglio se quest’ultima è magica, bizzarra o anticonvenzionale: il vero messaggio, infatti, non è tanto nel contenuto, quanto nel processo che il protagonista riesce a mettere in atto, nel tentativo –che nella fiaba deve sempre riuscire- di superare il problema. Attraverso la fiaba, il bambino apprende ad avere fiducia in se stesso, in quanto –come il protagonista della storia che ascolta- appartiene anche lui al genere umano, e in quanto tale, più di qualsiasi altra specie vivente, riesce sia a rispettare il suo limite che a superarlo, ma solo quel tanto che basta per ottenere ciò che può ottenere. Impara insomma a distinguere ciò che è velleitario da ciò che è essenziale; e soprattutto impara che la misura per fare tutto ciò sta dentro ognuno di noi, sia come individui unici e irripetibili che anche come rappresentanti di una storia umana che ci condiziona indelebilmente tramite il nostro DNA: Carl Gustav Jung –il grande psicoanalista svizzero- fece riferimento a questo patrimonio chiamandolo “inconscio collettivo”, cioè un inconscio che appartiene a tutta la specie umana.

La fiaba riesce dunque a fare tutto questo e anche molto di più, perché parla lo stesso linguaggio della mente del bambino; una mente non ancora in grado di interessarsi alla logica e alla ragione delle cose, perché si nutre piuttosto di simboli, accostamenti, metafore, sensazioni, affetti, e utilizza quelle parti del cervello che fra tutte sono le più antiche, quelle legate agli affetti e agli istinti; il lobo prefrontale, infatti, che nel cervello umano è deputato a svolgere compiti logici, ha cominciato a svilupparsi solo nell’ultima frazione di secondo della storia del nostro pianeta[i]!

Sviluppo della consapevolezza

Educare da genitore non significa dunque fornire sempre le soluzioni ai problemi o indicare i comportamenti corretti, come se i figli –e anche noi stessi- potessimo adottarli a prescindere da quello che siamo, dalla nostra storia, dai nostri punti di forza e da quelli di debolezza; a questo ci pensa la scuola, la chiesa, la legge, con le proprie norme che stanno al di sopra o comunque al di là degli individui singoli. Fra l’altro, come è noto, ciò che è giusto e ciò che non lo è risente in modo marcato dei condizionamenti storici, politici e sociali che una specifica comunità promuove in quel determinato periodo storico; e seguire quei condizionamenti non è sempre la cosa giusta da fare. Piuttosto, educare significa aiutare i figli a coniugare il loro potenziale con le richieste dell’ambiente intorno a loro, il che implica sostenerli nell’acquisire consapevolezza di sé e consapevolezza dell’ambiente.

Le fiabe aiutano a prendere contatto con la varietà del mondo esterno con una modalità che a differenza dei filmati, dei racconti illustrati, dei fumetti o della TV lascia spazio agli adattamenti individuali e all’immaginazione, fornendo al contempo la sicurezza di un’esplorazione che alla fine premierà sempre ciò che è giusto premiare e punirà sempre ciò che è giusto punire. E senza che ciò assomigli ad una vittoria o ad una sconfitta personale di qualcuno in particolare. Il Qualcuno che vince o che perde è, infatti, nelle fiabe molto più di “una” persona: è il rappresentante a livello mentale del genere umano di cui il bambino nella fiaba può fare conoscenza in modo dettagliato, ben prima che l’esperienza concreta glielo consenta, o –qualora abbia l’età per sperimentarlo già da sé- accompagnandolo in modo non intrusivo nella comprensione delle sue prime relazioni umane.

Comprendere il mondo delle relazioni umane

Il bambino viene al mondo del tutto ignaro delle regole che guidano l’agire degli uomini. Ha, certo, un patrimonio genetico che lo spinge fin dalla nascita a cercare di sintonizzarsi sull’altro e ad aspettarsi che gli altri lo facciano con lui; ma per far si che questo patrimonio in potenza si trasformi in una capacità in atto occorre che impari dall’esperienza come fare[ii].

Se come esseri umani siamo programmati per relazionarci con i nostri simili, per poterlo fare dobbiamo per prima cosa comprendere che l’altro non è me stesso e che le differenze di ruolo, di intenzione e di attitudine sono fondamentali per poter intraprendere una conversazione, al limite anche solo per ottenere l’attenzione necessaria a cominciarla. E la fiaba, in questo senso, è una maestra efficacissima.

E’ noto invece che al bambino la distinzione fra me e l’altro non riesce con facilità (e purtroppo anche a numerosi “bambini” ben più che maggiorenni!); ad esso appare, infatti, incomprensibile come ciò che prova come un irrefrenabile bisogno non venga immediatamente soddisfatto, spesso ancor di più quando non è chiaro neppure a lui di quale bisogno si tratti; ed è, in effetti, su questa comunicazione unidirezionale che si concentrano i primi sforzi relazionali del lattante, supportati dalla dotazione innata di istinti, che viene al mondo con noi.

Ovviamente va da sé che la dotazione innata di istinti del bambino non si cura di quali siano i vincoli dell’ambiente in quel determinato momento, perché mette in primo piano solo le sensazioni legate al bisogno da soddisfare. Ed è naturale che sia così: il neonato non può e non deve curarsi di quanto sia stanca la mamma quando lui ha fame, di cosa faccia felice la nonna, di quanto sia più irritabile zia Paola rispetto a zia Rosa se le tiro i capelli, eccetera eccetera[iii]. L’istinto non distingue: esegue un determinato programma in modo automatico. Tutti sappiamo che con la maturazione delle facoltà cognitive, il bambino deve e può uscire da questo “narcisismo primario”, imparando a distinguere sé dall’altro, ma non sempre è facile superare questa sfida. Comunque, superata quest’ultima, egli è pronto per la sfida successiva: distinguere gli altri fra di loro, cioè distinguere gli uni dagli altri. Crescendo, infatti, i bisogni del bambino cambiano ed è naturale che diventino sempre più articolati, più complessi, più vari; sempre meno il papà e la mamma sono in grado di soddisfarli, anche se come genitori spesso ci fa dispiacere ammettere che egli ha bisogno di altri che non siamo noi: sappiamo bene che la gratuità dell’amore che possiamo offrire loro difficilmente la troveranno dietro l’angolo e per questo vorremmo che nostro figlio rispondesse a questa necessità evolutiva e vitale senza correre più rischi del fisiologico; ma proprio per questo, è essenziale che il bambino impari come scegliere le persone o le situazioni più adatte a sé. L’umanità è ricca e variegata e saper distinguere le persone cui affidarsi da quelle cui è meglio girare alla larga è uno dei rudimenti della felicità, che non si impara facendo leva sul solo istinto, che anzi su questo è piuttosto fallace, portandoci spesso dritti nella pancia del lupo!

Spesso noi genitori cerchiamo di stimolare l’acquisizione di questa competenza attraverso il rimprovero, il divieto o la minaccia (“Guai a te se ti avvicini ancora a quel violento!”; “La vuoi smettere una buona volta di farti tiranneggiare da quel teppista?”); oppure attraverso la spiegazione logica, il consiglio o il ricorso alla buona educazione (“Vedi Luca: mica sono tutti buoni come te! E’ venuto il momento in cui devi imparare a difenderti!”; “Tesoro, vedi cosa succede quando non ascolti la mamma?”; Che ti serva da lezione: devi imparare che al mondo esistono anche i cattivi e starne alla larga!”). Tutte strategie che mettono all’erta il bambino, che, in effetti, se avremo fortuna non si avvicinerà più a quel bullo di terza B, raggiungendo così l’obiettivo.

Eppure spesso ci sfugge che così facendo possiamo rendere i nostri figli insicuri, impossibilitati a credere di sapersela cavare da sé, perché inoculiamo nella loro anima l’idea che qualcun altro sappia scegliere per loro, meglio di loro. Insomma: li lasciamo privi della risorsa essenziale per il futuro, vale a dire come evitare che accada con un altro lupo, magari di 4C, e magari questa volta travestito da nonnina! La fiaba, come i miti, racconta invece del bullo di terza B, di quello di 4C, della zia Paola o della zia Rosa, e anche di quando si travestono da qualcos’altro; parla in qualche modo di tutti i personaggi che colorano questa terra e delle loro possibili evoluzioni o involuzioni, fornendo una chiave di comprensione e un codice di comportamento, tarato socialmente ma non appiattito sui modelli educativi del momento. Come il teatro, la letteratura e il cinema, la fiaba consente in una misura che può raggiungere la mente del bambino non solo di familiarizzare con le tipologie dei caratteri umani, come accade nella vita, ma anche di vedere come va a finire quando interagiscono fra loro, fornendo una vera e propria euristica dei comportamenti sociali che vale molto di più di mille lezioni frontali.

Ma, attenzione: niente a che vedere con la didattica! Non sono favorevole, infatti, alle fiabe “didattiche”, che pure è un genere che esiste; si tratta di racconti con la morale troppo esplicita, coi caratteri dei personaggi molto netti, che spesso hanno un finale didascalico, che magari assomiglia ad un sermone. Le fiabe didattiche sono “strette” e come le domande chiuse cui si può rispondere sì o no, anche con esse si corre il rischio che il destinatario finisca per ignorarle o girare la testa dall’altra parte, insomma di declinare l’invito a comprare non perché non abbia bisogno di quell’abito, ma perché il venditore è stato troppo insistente! Al pari dei libri di scuola, la fiaba didattica può fornire la soluzione del problema, interpretare la realtà, perdendo la funzione di stimolo all’individuazione della propria strada, di cui si parlava più su.

Quando capita (anche a noi adulti!) che, leggendo una fiaba, ci sfugga la morale....beh, è un’esperienza da fare! E’ lì che forse si nasconde il tesoro più bello della fiaba! Possiamo fermarci un momento e lasciare che anche a noi quella fiaba faccia pensare, quel tanto che basta per riaprire la strada al possibile, per lasciarci per un attimo interrogare dalla fiaba stessa, come fa l’esistenza in ogni momento, e consentirci di trovare quella parziale ma profonda risposta, che finalmente ci lascerà in pace con noi stessi!

Conosci te stesso. E anche la tua ombra.

Come sappiamo, sul frontespizio del tempio dell’oracolo di Delphi campeggiava l’esortazione di cui Socrate è stato l’immortale custode: conosci te stesso! Se la consapevolezza che serve al bambino per scegliere responsabilmente riguarda sia il mondo esterno che quello interno, allora l’esortazione di Delphi riguarda questo secondo mondo e tira in ballo necessariamente il ruolo educativo. Come educatori possiamo favorire questa conoscenza (ma anche ostacolarla, per esempio nutrendo nell’animo del bambino la convinzione di essere ciò che non è, sia nel bene che nel male). La fiaba può essere un potente alleato di questo ruolo educativo. Essa che così efficacemente può parlare di come sono fatti gli altri e di cosa accade quando interagiscono fra loro, può anche fornire la cifra di cosa accade dentro di me.

La fiaba, infatti, è uno specchio dell’animo umano che parla un linguaggio universale; e più parla il linguaggio di tutta l’umanità più è probabile che anche il bambino -che invece è un individuo specifico- trovi qualche messaggio utile per conoscersi meglio. In fondo, non è forse vero che tutte noi donne, baciando il rospo, cerchiamo di trasformarlo in principe? Ed è una buona cosa, perché l’amore che riversiamo sulle parti migliori dell’altro è in grado davvero di trasformarne l’animo. E ancora: tutti gli uomini cercano di salvare una principessina dalle spire del drago, ed è una buona cosa, perché non c’è antidoto più potente alla paura del coraggio di chi è disposto ad affrontare le sfide. Questi messaggi universali parlano di come siamo fatti dentro e aiutano il bambino a riconoscersi e ad accettarsi per quello che è.

Ma non solo per le parti più nobili, anzi -e forse ancor di più- per quelle meno luminose. Sono proprio queste parti meno desiderabili di sé che nelle fiabe il bambino può vedere rappresentate, lasciando da parte i giudizi e le morali correnti, affidandosi piuttosto alla saggezza senza tempo dell’umanità, ai valori universali. Così il Cavaliere Nero è una forza potente, così come lo sono l’invidia, la gelosia, la rabbia. Che nelle fiabe appaiono sempre come tali, anche se magari rappresentate attraverso animali, forze della natura, folletti o streghe. Sono forze che si possono vedere, comprendere, utilizzare, trasformare oppure sconfiggere. Ma occorre prima guardarle dritte negli occhi, dare loro un nome, riconoscerle come parti reali, parti di noi; occorre che ci diventino familiari, almeno in una certa misura; invece, piuttosto le cacciamo in cantina, giù giù, lontane dalla coscienza di noi stessi, e preferiamo sentirle come parti aliene, che neghiamo siano nostre e magari invece vediamo bene solo negli altri, in quel gioco di specchi che si chiama proiezione. Questa negazione sembra la strada migliore per non sentire quel penoso senso di indegnità e di colpa che è inevitabile quando guardiamo il drago dritto negli occhi, ma si tratta di una scorciatoia che non conduce da nessuna parte. La consapevolezza delle nostre zone d’ombra è certo una gran fatica e ci vuole molto coraggio per accettarci con i nostri difetti, ma ciò è vero solo all’inizio, poi ci rende invece più liberi e finalmente possiamo scegliere cosa farcene!

Nei bambini, questa accettazione e questo coraggio vanno sostenuti; invece è molto facile trovare pratiche educative che condannano le parti meno nobili; qualunque bambino sa bene che esistono, spesso suo malgrado, e i rimproveri sortiscono spesso l’effetto della vergogna, stimolando la negazione o la ribellione. Forse quel bambino vorrebbe anche lui sbarazzarsi di quelle emozioni impopolari dal momento che in fondo a nessuno può piacere deludere gli adulti da cui dipende: sa bene che la mamma non approva il desiderio che sente di “uccidere” il fratello più piccolo (che attira così tante attenzioni!), e che la maestra la sgriderebbe se provasse a rubare alla compagna quell’astuccio (che tanto vorrebbe anche lei!). Ma non sa come si ferma il drago e non possiede nessuna spada per vincere quel mostro! Il bambino finisce così per far suo il giudizio del mondo, e appiccica alla sua rabbia l’etichetta dell’essere cattivo, al suo desiderio di possesso quello di essere sbagliata. Il bambino non sa come negoziare con le parti di sé che giustamente nel vivere sociale non sono accettate, e ha la tendenza a prendersi tutte le colpe, anche quelle che appartengono all’umanità e al regno dell’istinto primordiale!

Nelle fiabe, le rappresentazioni delle passioni umane, che parlano dunque delle parti che ognuno di noi ha dentro di sé (e con cui tutti noi, benché adulti e vaccinati, siamo chiamati per tutta la vita a fare i conti!) sono poste in modo tale che siano sempre alla portata del bambino, aiutandolo a “sentirsi a casa” anche quando lui non è come lo vorrebbe la mamma (o la maestra, o il maestro di judo, o l’amico del cuore). E questa possibilità è della massima importanza, poiché uno degli ostacoli più grandi alla crescita sta nel credere che ciò che devo essere non sia tanto ciò che scelgo come la cosa giusta per me, bensì ciò che fa contento qualcun altro, nelle cui mani consegno il mio valore di persona (e spesso purtroppo anche il mio diritto di esistere); che però non è un vero valore, ma soltanto il suo simulacro.

In sintesi la fiaba, gradualmente, aiuta il bambino a distinguere l’agire comportamenti che sono sbagliati per qualcuno (per la legge, la società, la buona educazione o per la mamma) o che possono fare del male a qualcuno, dall’ “essere” una persona sbagliata; cosa quest’ultima che ha sempre delle conseguenze negative nella mente dei bambini.

Cogliere questa differenza è di fondamentale importanza per crescere bambini capaci di scegliere.

L’autonomia dalla presenza materiale dell’altro

C’è un’altra questione che rende il racconto della fiaba un’esperienza di grande valore psicologico: è la voce di chi narra (della mamma, del papà, o della persona di accudimento) che fornisce la possibilità di essere in contatto con l’altro, pur nella propria individualità.

La voce, infatti, alla stregua della musica, contiene messaggi non verbali di grande impatto emozionale, un impatto invisibile che funziona da potente antidoto alle paure e alle angosce degli esseri umani di tutte le età, quando è modulata nel modo giusto[iv]. Al bambino consente di sperimentare la rassicurazione che la presenza dell’adulto può dare, al di là del contenuto esplicito di quella relazione e proprio magari a prescindere dalle difficoltà di sintonizzazione che spesso fra adulti e bambini semplicemente accadono. Lungi dall’essere solo una tregua nella lotta a volte dolorosa che le differenti esigenze fra genitori e figli impongono, questi momenti rappresentano la base su cui costruire la possibilità di una comprensione profonda di cosa sia l’amore; del fatto cioè che esso va svincolato dalla soddisfazione del bisogno personale, perché si può provare dentro di sé anche quando le età, il carattere. insomma le differenze sembrano allontanarci. Anzi, a volte possiamo provarlo proprio in queste estreme condizioni. L’amore che passa nella relazione fra chi narra e chi ascolta rappresenta un contatto sottile, un contatto emozionale, che non essendo corporeo in senso stretto, poiché veicolato dalla sola voce, consente di imparare come ci si scambia calore anche quando ognuno dei due è solo con se stesso, quando i corpi cioè non si toccano.

La capacità di sperimentare il calore dell’amore anche nell’assenza materiale dell’altro è una capacità che consente poi al bambino di svincolarsi gradualmente dalla dipendenza fisica della persona di accudimento e di sentirsi in grado di esplorare il mondo in autonomia e responsabilità, mantenendo dentro di sé -e non fuori- la funzione di accudimento affettivo che è propria del genitore positivo. E’ un apprendimento dunque della facoltà di autoaccudimento che differenzia in modo netto le personalità sane da quelle psicologicamente fragili o instabili; il grande studioso dell’infanzia e psicoanalista britannico J.Bowlby, chiamò questa sofisticata facoltà psichica base sicura[v], richiamando non a caso il concetto di radicamento e di autoappoggio, tanto caro alla psicoterapia di tutti gli orientamenti.

Conclusioni

La fiaba è come un angelo custode, discreto ed affettuoso, che accompagna e sostiene senza forzature, senza condanne inappellabili né giudizi; e noi genitori possiamo esserne i rispettosi alleati sia quando le leggiamo ai nostri figli, sia quando le inventiamo, come nel caso di questa pubblicazione di cui ho il piacere e l’onore di fare la Prefazione.

Questo è un libro che risulterà interessante non solo ai genitori e ai loro figli, che potranno naturalmente goderne per le ragioni che ho cercato di riassumere in questo scritto, ma anche a tutti gli operatori sociali dell’infanzia e della famiglia (colleghi psicoterapeuti, psicopedagogisti, mediatori famigliari, assistenti sociali e dell’infanzia, educatori ed insegnanti). A loro, infatti, non sfuggirà anche l’importanza del contenuto specifico delle fiabe, tutte incentrate sul tema della separazione genitoriale e della famiglia monoparentale, fiabe che dunque offrono spunti rilevanti sui temi dell’accettazione del cambiamento, del lutto, della diversità, dell’evoluzione sociale e personale. Argomenti che certo fanno parte di tutte le belle fiabe del mondo, ma che qui si offrono come specchio di una società che cambia velocemente e che chiede con urgenza di offrire risorse psicologiche adatte ad integrare le “nuove famiglie” nella mente dei bambini. Le belle fiabe come quelle che leggerete in questo libro sono doni preziosi in questa direzione, e imparare a confezionarle non è difficile, ma certo richiede sensibilità e un pizzico di talento, che a questi genitori non è mancato.

La bella fiaba (e in questo libro ne troverete diversi esempi) sa suscitare fascinazione, magari attrazione o repulsione, e soprattutto parla il linguaggio dell’anima, non della ragione; essa ascia aperto il mondo dell’immaginario del bambino, indica con grazia questo e quello, assomigliando in ciò più alla poesia che al documentario. Nei personaggi che presenta, non offre insanabili contraddizioni, ambiguità incomprensibili, dolori insuperabili, mancanza di vie d’uscita! Anche quando il Cattivo diventa Buono o viceversa accade qualcosa che dà ragione della trasformazione, che indica più che spiegare la ragione di quel cambiamento e fornisce perciò la cifra della mutevolezza dell’animo umano.

Perché esso è sì mutevole, ma è nella fiaba che apprendiamo che tale mutevolezza può e deve avere un limite, cosicché risulti sufficientemente chiaro che solo agli dei è concesso di capricciare con le vite degli uomini!

Buona lettura!

(°) Linda Francioli, psicologa, psicoterapeuta, fondatrice di Genitori Singolari

Note e riferimenti presenti nel testo:

La teoria dei tre cervelli è stata elaborata dal neurologo americano Paul McLean (1913-2007) e si può trovare in: Evoluzione del cervello e comportamento umano, Einaudi, Torino, 1984; tale teoria è ripresa in chiave educativa da Naranjo C. (2004), Cambiare l’educazione per cambiare il mondo, Forum ed. universitaria, Udine, 2006

Stern D.N. (1990), Diario di un bambino, Arnoldo Mondadori Editori, Milano, 1991

Vedi anche: Spitz R.A. (1957), Il primo anno di vita del bambino, Giunti Editori, Firenze, 2009

Erikson M.H., La mia voce ti accompagnerà, Astrolabio Edizioni, Roma, 1983

Bowlby J. (1988), Una base sicura, Raffaello Cortina, Milano, 1989

Bibliografia per approfondire

Arlati V., Emozioni in Fiaba, edizioni Red, Milano, 2010

Hillman J., Il codice dell’anima, Adelphi, Milano, 1997

Quadrino S., Parlare con i bambini, Arnoldo Mondadori Editore, 1992

Santagostino P., Come raccontare una fiaba, edizioni Red, Milano, 1997

Valentinotti C., Fiabe toccasana, edizioni Red, Milano, 2008



(*)Linda Francioli, psicologo, psicoterapeuta, counselor ad orientamento gestaltico, vive e lavora a Milano. E’ esperta in formazione degli adulti e di sviluppo delle competenze personali; è fondatrice a Milano di GenitoriSingolari (www.genitorisingolari.com), per conto del quale -a supporto della separazione coniugale e/o della genitorialità monoparentale- ha condotto decine di laboratori e gruppi di formazione sulla genitorialità consapevole, e sessioni di coppia ed individuali di psicoeducazione, di sviluppo delle competenze genitoriali e di terapia psicologica.