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Vedovo in crisi: aiutarlo o lasciarlo?

Gent.ma dott.ssa, ho quasi 40 anni e da poco più di un anno ho una relazione con un uomo vedovo di 45, con due bambini piccoli, di 5 e 6 anni. Tra fidanzamento e matrimonio è stato con sua moglie (che è morta da due anni e mezzo di leucemia, dopo un anno e mezzo di malattia) circa 20 anni.

Noi ci conosciamo da circa 15 anni perchè per una decina di anni siamo stati colleghi di lavoro, poi io ne ho iniziato un altro, ma sono sempre rimasta in contatto con il mio vecchio gruppo, conoscevo molto bene sua moglie e i bambini e ci è capitato anche di frequentarci con altre persone al di fuori dell'ambiente lavorativo. Io negli anni scorsi ho avuto alcune storie importanti, finite male per diversi motivi. Dopo che sua moglie è morta, con altri ex colleghi e amici, sono stata vicina a lui e ai bambini e piano piano tra noi è nato qualcosa di più (lui tra la morte della moglie e la nascita del nostro rapporto ha avuto alcune storie, ma nulla di importante).
Ovviamente siamo due persone, per motivi diversi, profondamente ferite dalla vita, inoltre ci sono i bambini, che per me costituiscono la preoccupazione maggiore e che non vorrei in alcun modo ferire. Loro mi conoscono, mi adorano, sono felicissimi quando stiamo tutti assieme, pur sapendo benissimo che non sono e non voglio sostituire la loro mamma..avendola conosciuta io stessa gliene parlo spesso, visto che il padre lo fa con difficoltà, e loro ne parlano con molta serenità. Conosco i parenti di lui, che mi hanno accettata splendidamente, prendendo la nostra relazione come una sorta di miracolo, e anche i parenti di lei hanno avuto un atteggiamento più che positivo nei miei confronti (le sorelle in particolare sono felici che a fianco al cognato e ai bambini ci sia una persona che li ami incondizionatamente). Per il momento non conviviamo, anche se entrambi siamo coscienti che, se il rapporto proseguirà, sarà un passo che affronteremo ma, sia per il fatto che il lutto è recente, sia per il fatto che io sono una persona molto indipendente e che vive da sola da parecchio tempo, sia per via dei bambini, non abbiamo fretta nel compiere questo passo. Trascorriamo assieme quasi tutti i week end e le vacanze assieme, abbiamo fatto dei viaggi e progettiamo per quest'estate di farne un altro.
Il problema è che lui ogni tanto entra in crisi profonda e in confusione. E' una persona molto chiusa, praticamente dei suoi pensieri più profondi parla solo con me e quando i suoi pensieri riguardano me non ne parla e non si confronta con nessuno. Una prima volta ci siamo allontanati perchè lui, pur essendo cosciente che il nostro rapporto andasse al di là dell'amicizia, non si sentiva pronto per un rapporto serio perchè gli sembrava di tradire la moglie. Superata questa fase, di recente è entrato in crisi perchè andando avanti nel nostro rapporto, da una parte gli sembra che stia in qualche modo dimenticando il passato e  si chiede come sia possibile aver amato così tanto la moglie se ora prova dei sentimenti per un'altra donna, dall'altra non si sente ancora pronto per una convivenza (che io non ho chiesto) e cerca di sminuire quello che prova per me. Quindi il fatto stesso di avere una relazione con me lo mette in qualche modo in crisi.
Ho letto tantissimi libri sul lutto, cerco di stargli accanto e spiegarli che è passato relativamente poco tempo dal suo lutto e che non deve pretendere troppo da se stesso ma affrontare un passo alla volta, ma queste crisi (molto passeggere) a cui ogni tanto è soggetto stanno in qualche modo minando il nostro rapporto e la mia fiducia in lui e nei suoi sentimenti nei miei confronti. Io gli ho più volte consigliato una psicoterapia, credo che ne trarrebbe beneficio lui, il rapporto con i bambini e quello con me, se non altro sarei più sicura della chiarezza dei suoi pensieri, di recente si è detto disposto ad affrontarla ma ancora non ha fatto dei passi in questo senso. Ritengo di essere una persona sensibile però sinceramente questi meccanismi che scattano nella sua testa non riesco a coglierli con chiarezza, se lui non me ne parla. C'è qualcos'altro che potrei fare per aiutarlo? O forse è meglio staccarsi in modo che possa chiarirsi le idee una volta per tutte?

Elisa


Cara Elisa, ho lasciato la versione integrale del suo scritto, perché rileva che lei ce la sta mettendo tutta per sostenere il suo compagno: lo affianca nella gestione dei figli, si preoccupa del loro benessere, è contenta di frequentare la sua famiglia di origine, ha letto libri sul lutto, consiglia la psicoterapia, eccetera eccetera. Brava. Sembra cioè che mentre lei ha chiaro che avere una relazione con un genitore vedovo implichi una certa fatica e un discreto impegno verso l’altro (cioè tener conto dell’inevitabile instabilità emotiva), il vedovo da parte sua non si sia fatto carico non solo di fare altrettanto verso di lei (in questo caso rassicurandola) ma anche di affrontare il difficile compito di mettere ordine dentro di sè, per ridurre la dolorosa e inevitabile confusione che prova. Brava, la sua parte la sta facendo molto bene!
Questo naturalmente va detto, perché altrimenti quello che sto per dire potrebbe risultare semplicistico e anche ingeneroso.  Il fatto è che qui vorrei mettere però l’accento su un altro aspetto della vostra storia, cioè il pezzo che riguarda i suoi sentimenti, Elisa. Ciò implica che per prima cosa smetta di scrutare l’animo del suo compagno -come il capitano guarda il cielo per capire se può avventurarsi in mare aperto- e si concentri piuttosto su di sé. Guardare l’altro è infatti spesso il modo con cui evitiamo di guardare noi stessi. Dal momento che conosce da molti anni il suo compagno, conosceva la moglie, i bambini e tutto quanto, le chiedo: che cosa ha fatto scattare in lei il sentimento d’amore verso di lui? Che così quel “qualcosa di più” che piano piano dice di aver provato per lui? Mi pare evidente infatti che il suo compagno non sia in grado di mettere in parole quello che sta animando il suo mondo interno, ma probabilmente non da ora. Lo descrive come una persona chiusa, è dunque probabile che il lutto sia semplicemente una specie di evidenziatore di qualcosa che c’era prima e che ci sarà sempre, qualcosa che ha a che fare col carattere.
Non sarà nella chiarezza dei sentimenti del suo compagno, insomma, che lei potrà ancorarsi, anche se indubbiamente una psicoterapia potrebbe aiutarlo molto, e fa bene a proporla.
Deve domandarsi piuttosto se quel “qualcosa in più” che l’ha fatta scegliere quest’uomo è qualcosa che continua ad esserci e se si, se lei riesce da parte sua a continuare a coltivare ogni giorno quel qualcosa, con la cura amorevole di un giardiniere. Questa cura non riguarda il suo compagno, riguarda lei. E’ lei che deve fare di tutto per continuare a tener viva quell’immagine, dentro di lei, non fuori; quella bellezza che l’ha fatta innamorare è infatti preziosa per lei, Elisa, prima che per “voi”. Sempre che fosse reale e non un’illusione, una proiezione assoluta. Insomma: può guardare le cose come sono e dirsi che c’è ancora quel qualcosa, oppure no? Si è forse sbagliata? Questo è il punto, che ribalta come in una rivoluzione copernicana la questione, mettendo a fuoco lei, piuttosto che il suo compagno, quello che LEI vede, quello che LEI vuole. Si è sbilanciata a sufficienza sulle cose che presume che siano utili per la vedovanza del compagno, ritorni ora su di sé, per fare la necessaria sintesi.
Il rischio è che non vogliate le stesse cose e che nessuno riesca suo malgrado a fare un passo indietro rispetto ai propri bisogni. E questo, se c’è, e non le va, fa bene a investigarlo e a dirselo ora, prima che il tempo o il suo compagno decida per lei. Quando siamo protagonisti di un trauma o di fronte ad una seria difficoltà, quale indubbiamente è  -per tutti e due- affrontare un lutto, lì entrano in gioco le qualità personali. Lei mi sembra una persona che affronta le cose, consapevole della fatica che ci vuole, e che giustamente si aspetta di vedere i frutti del suo impegno. Forse il suo compagno invece vuole tranquillità, in particolare e in modo marcato in questo periodo, cioè non mettersi ancor più in crisi con una psicoterapia; vuole sentire che lei lo accoglierà sempre e comunque, anche così chiuso, anche così poco generoso. Ha bisogno del lato materno del suo femminile, di quel dare un po’ “a perdere” che le madri in effetti conoscono molto bene (col rischio a volte di non saper distinguere più dove sta il limite). I due approcci non sono necessariamente incompatibili, anzi: molte felici relazioni si basano sulle differenze marcate di carattere, ma ad una condizione: che di fronte alla inevitabile solitudine cui la diversità dell’altro ci consegna, non ci si spaventi, che non venga minata la fiducia di base.
Che l’altro insomma non solo sia accettato ma anche valorizzato come portatore di valore nella relazione, amato anche in virtù di quella differenza.
In conclusione, lei mi chiede cosa può fare per aiutarlo. La risposta a questa domanda è: smetta di aiutarlo, guardi piuttosto dentro di sè, si prenda il tempo per vedere se riesce a trovare le risorse per continuare a stare felicemente accanto a quest’uomo, così com’è, non a quello che lei vorrebbe. Quello che lei vorrebbe, le direbbe “grazie”, “brava”, “aiuto”, “scusa”, “che ne dici”, “il fatto è”, etc etc., e per lei verrebbe tutto più facile. Ma non è il suo compagno, forse assomiglia a qualcuno che rimpiange, che ha amato, per esempio una figura genitoriale. In ogni caso non è nel suo qui-ed-ora, l’unico su cui vale la pena di concentrarsi per decidere cosa lei vuole.
Le faccio i miei più cari auguri.

(a cura di L.Francioli)

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